Immigrati con benefici

Sono nato in un Paese ricco, moderno e democratico, circondato dall’amore e dall’affetto di amici e della famiglia, non ho mai patito la fame né ho esperienza diretta di guerra, anche se l’ho vissuta indirettamente tramite mio padre.

La mia barra dei bisogni era piuttosto alta, i bisogni primari e molti bisogni secondari erano soddisfatti, ma sentivo dentro di me un desiderio di avere di più, di ottenere di più, di cambiare.

Sono sempre stato piuttosto a mio agio con il cambiamento, egotisticamente, nel profondo, ho sempre suddiviso le persone fra coloro che vivono una sola vita e coloro che ne vivono molte. Io, ovviamente, mi sento parte del secondo gruppo, e ne sono orgoglioso. Cambiare vita completamente, distruggere e ricostruire i propri valori, estremizzare comportamenti e stili di vita, sono cose che ho fatto con naturalezza e talvolta, caparbietà. Fortunatamente ho sempre avuto pali stabili e piantati in profondità, che mi hanno permesso di non andare alla deriva. Cambiare è sempre un trauma, da cavalcare con fierezza o da affrontare con timore, a me ha sempre dato sensazioni positive, anche nelle difficoltà.

E negli ultimi anni di permanenza in Italia cambiavo continuamente alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a trovare. La mia barra era alta, il mio ego mi schiaffeggiava giornalmente per spronarmi a raggiungere quei desideri, forse futili ma irrimediabilmente necessari al mio Io di allora.

Un lavoro che mi gratificasse, un’indipendenza ottenuta esclusivamente dalle mie capacità, una libertà dai costumi per me obsoleti e incongruenti che la società italiana impone. Infine una liberazione da una politica e da un’idea di società che al tempo era maggioranza assoluta e schiacciante del Paese.

Quando ripenso a quelle motivazioni che mi spinsero al più grande cambiamento fatto finora nella mia vita, cioè andare a vivere nei Paesi Bassi, non posso fare a meno di pensare alle migliaia di persone che quasi ogni giorno rischiano la vita per imbarcarsi od incamminarsi verso un futuro diverso, migliore.

Arrivato nei Paesi Bassi pensavo di essere un immigrato. Decisamente un immigrato fortunato perché grazie all’Unione Europea era mio diritto spostarmi liberamente in un altro Paese dell’Unione, fortunato perché non avrei avuto bisogno di un permesso per immigrare nel Paese in cui avevo deciso di aprire un nuovo capitolo della mia vita, ma pur sempre un immigrato.

Non parlavo la lingua del posto, anche il mio inglese non era granché, allenato per mesi a suon di TV show in lingua originale e sottotitoli ma mai davvero provato sul campo. Non avevo un lavoro, né una certezza di poterlo trovare, solo speranze. Non avevo un posto dove stare, per un mese ho vissuto in tenda in un campeggio, non avevo idea di come fare per trovare una stanza o un letto per dormire, avevo solo un computer con me e sapevo usare internet. Avevo mille euro, quello era il mio budget per riuscire a rifarmi una vita. Insomma, mi consideravo un immigrato vero.

Se provo oggi a paragonare la mia situazione di allora con gli immigrati che cercano di raggiungere l’Europa o gli Stati Uniti, vedo l’enorme differenza. Se io avessi fallito sarei tornato, sì con la coda fra le gambe ed un ego distrutto, ma sarei tornato in un luogo dove avevo una casa, circondato dagli affetti. Chi, oggi come ieri, cerca di immigrare, spesso non ha questo lusso. Fallire significa ritornare nella guerra o nell’oppressione politica o culturale.

Ma sento un’affinità con queste persone perché gli obiettivi sono gli stessi, migliorare la propria situazione, cambiare, provare a soddisfare i propri bisogni. Questi sentimenti primordiali ci uniscono, io non ho mai provato vergogna nel sentirmi un’immigrato, anzi, ne sentivo la forza primordiale, ero orgoglioso della forza e dell’energia necessaria per fare cambiamenti di tale portata.

Oggi, con lo scemare dalle emozioni di allora, mi rendo conto della stupitidà di tale paragone. Io non sono mai stato un immigrato, io sono sempre stato un immigrato con benefici, cioè un espatriato.

Per scrivere questo post ho controllato le definizioni di immigrato ed espatriato nella treccani. Li riporto qui per analizzarli:

  • immigrato agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di immigrare]. – Che, o chi, si è trasferito in un altro paese: operai i., famiglie i. nel Nord; in senso specifico, riferendosi ai soli spostamenti determinati da dislivelli nelle condizioni economiche dei varî paesi, chi si è stabilito temporaneamente o definitivamente per ragioni di lavoro in un territorio diverso da quello d’origine: i. regolari; i. irregolari (o clandestini), privi di permesso di soggiorno; i. stagionali, quelli che emigrano in un paese straniero sostandovi per brevi periodi, limitatamente alla durata del contratto lavorativo che li lega all’azienda che li ha richiesti.
  • emigrato agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di emigrare]. – Che o chi è espatriato, temporaneamente o definitivamente, per ragioni di lavoro: i connazionali e.; notizie dagli e.; le rimesse degli e., i risparmî che essi mandano alla famiglia di origine; e. politici, coloro che hanno lasciato la patria per ragioni politiche.

L’esaptriato è chiamato emigrato nella treccani, ma si può trovare una definizione di ‘expat’ come neologismo:

  • expat s. f. e m. inv. Chi si stabilisce temporaneamente o definitivamente all’estero per motivi di lavoro. ♦ Philip e Belinda Haas – lui regista, lei, la moglie, sceneggiatrice e montatrice di Una notte per decidere – in questa piccola tragedia tra “expat”, tra gli eleganti stranieri della comunità britannica e americana espatriata a Firenze negli anni del fascismo, scelgono da una parte il tono decorativo e mondano che questo bel mondo si porta sempre dietro, dall’altro sottolineano, anche grazie alla nevrotica interpretazione di Kristin Scott Thomas, la sua crisi di coscienza. (Irene Bignardi, Repubblica, 2 giugno 2000, p. 56, Spettacoli) • Ma il fenomeno più rilevante è proprio la proliferazione di scrittori inglesi e americani che hanno scelto l’Italia per le locations dei loro polizieschi. Molti degli scrittori in questione risiedono (o hanno abitato a lungo) in Italia, da cui l’altra etichetta data al sotto-genere, «Italian Expat Crime Fiction», dove expat (da expatriate) è il nome che si dà agli inglesi, e per estensione agli americani, che vivono all’estero. (Ranieri Polese, Corriere della sera, 26 luglio 2009, p. 25, Terza Pagina) • Cara Italia, ti scrivo. E ti snobbo. Nonostante tu abbia le città più belle al mondo, costellate di paesaggi e opere d’arte che fanno impallidire il resto del mondo. È questa la cartolina inviata al Belpaese dagli expat. Abbreviazione di expatriate, gli espatriati. Quelli che lasciano per un po’ o per sempre la nazione di cui hanno ancora in tasca il passaporto. (Marcello Calvo, Giornale d’Italia, 24 settembre 2015, p. 3, Attualità) • Ma quella che sembra la speranza dell’ala più euroscettica dei Tories è stata ridimensionata da Downing Street, secondo cui non è stata indicata una scadenza perchè il governo di Londra non intende prendere decisioni unilaterali prima che sia raggiunto un accordo con Bruxelles sul futuro dei cittadini Ue residenti nel Regno e gli ‘expat’ britannici che vivono nel continente. (Arena.it, 28 febbraio 2017, Mondo) • Nell’ultimo report della più grande comunità di expat – persone che vivono all’estero, letteralmente ‘espatriate’, con o senza la residenza – diffuso alla fine di novembre 2020, l’Italia è agli ultimi posti per attrattiva: su 66 città dell’Expat City Ranking 2020 – un indice sulla qualità della vita mescolando fattori come aree verdi, mobilità sostenibile, funzionamento strutture, presenza di aggregatori sociali ecc – Milano è al 63/mo e Roma addirittura 65/ma al penultimo posto. (Alessandra Magliaro, Ansa.it, 15 dicembre 2020, Lifestyle).
  • Voce ingl., scorciamento di expatriate (‘espatriato’).
  • Già attestato nel 1990, secondo Zingarelli 2021 e Nuovo Devoto-Oli 2020-21.

Seguendo la definizione dei dizionari davvero non si riesce a capire la differenza fra un expat e un immigrato. Questa cosa la devi vivere per capirla e io, nella mia esperienza, posso capirne una parte.

Ho letto un bell’articolo sulla questione (Expatica.com) in cui fanno un esempio calzante:

Un polacco che lavora come carpentiere nei Paesi Bassi non è un espatriato, ma suo fratello che lavora come analista finanziario a Hong Kong lo è

Non posso non ammettere che quando ho scoperto di essere un ‘expat’ e non un ‘immigrato’ ho tirato un sospiro di sollievo. Ho scoperto di essere ‘voluto’ dalla società dei Paesi Bassi. Ho un buon lavoro, pago moltissime tasse (italiani che pensate che le vostre tasse siano alte venite qui, vi sfido, venite qui cazzo!), spendo i miei soldi qui. Produco (vabbè, l’azienda è più US che olandese ma tant’è…) e contribuisco a far alzare il PIL olandese. La parola Expat mi dà dignità.

Dignità

Questa è la grande differenza che vedo, che sento nel profondo. Quando mi sentivo ‘immigrato’ mi sentivo in debito con il Paese che mi aveva ospitato. Mi sentivo sbagliato perché non parlavo la lingua e non capivo i costumi del posto, ero in una posizione di inferiorità e debito con la società che mi ospitava. E devo dire che nonostante, essendo Europeo, io abbia dei diritti ben chiari, talvolta ho subito piccole discriminazioni per il fatto di essere italiano. Per esempio la compagnia telefonica T-Mobile non accettava italiani fra i suoi abbonati con l’acquisto a rate di un telefono. Credo perché troppi italiani avevano truffato l’azienda comprando il telefono a rate e poi sparendo dai Paesi Bassi. Questa è una piccola discriminazione ma fù dolorosissima quando la subii. Posso solo provare ad immaginare cosa voglia dire essere discriminati per davvero.

Ora sono ‘Expat’, o perlomeno ora ne ho coscienza, ed il mio atteggiamento è cambiato. Essere un expat vuol dire semplicemente che ho ‘quattrini’. Non sono io ad aver bisogno del paese che mi ospita, è il paese che mi ospita che mi vuole. Ha bisogno di me. Ha bisogno di ciò che posso dare. Non mi cercava, non mi voleva, ma ora che la mia posizione lo dimostra, mi accetta e mi accoglie a braccia aperte. E poco importa che non parli la loro lingua o che ancora non riesca a sopportare il gusto del pollo con salsa di arachidi. Il mio lavoro mi rende diverso dagli altri immigrati. Il mio stipendio mi rende diverso. Pago uno stonfo di tasse ai Paesi Bassi (l’ho già detto? bene ripeterlo per i miei lettori italiani). Spendo un sacco, ho una bella casa comprata a degli Olandesi benestanti. Non chiedo soldi allo Stato, non ho bisogno del loro aiuto, non sono un peso o un problema per la società, al massimo posso essere uno ‘straniero’ interessante e curioso, da mostrare in società per dimostrare l’apertura mentale della società olandese che accetta e ingloba chiunque (abbia una buona posizione). Non c’è astio in questa mia riflessione, men che mai verso il Paese che mi ospita, solo una constatazione derivata dall’esperienza, personale e pertanto non generalistica.

Insomma, io mi sono comprato la mia dignità di Expat.

Io sono un expat, un immigrato con benefici. Vorrei continuare con urli ‘alla Meloni’ ma mi fermo qui.

Io, fortunatamente, sono un Expat.

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